Perché a vent’anni si è giovani davvero... Quale scenario istituzionale e politico si presenta davanti alle nuove generazioni del teatro italiano e con quali meccanismi produttivi dovranno misurarsi i nuovi gruppi che volessero trasformare la propria spontaneità in organizzazione?
Il teatro italiano si presenta all’inizio del terzo millennio incerto, confuso, vitale per irrequietezza, forte di passione e debole di Maestri. Ma cosa significa essere giovane nel teatro italiano?
La normativa statale per l’assegnazione delle sovvenzioni alle attività di prosa si limita a prendere in considerazione i giovani nei primi cinque anni di attività professionale. Annovera fra i criteri qualitativi una indistinta formazione e sostegno alle nuove istanze artistiche, per poi decretare che nessun soggetto può essere ammesso al contributo se non ha svolto attività da almeno tre anni. Non risultano esserci peraltro norme specifiche rivolte ai giovani artisti, né alle giovani formazioni teatrali nelle Leggi Regionali. Sembra così non esserci alcuna specificità dell’essere "giovane" sul piano normativo e su quello dei finanziamenti pubblici. I giovani artisti sono circondati dalla solitudine delle loro drammaturgie letterarie e sceniche, utilizzano linguaggi diversi come scorciatoie per la ricerca di poetiche performative ed esprimono tensioni verso un rigore etico da ritrovare e su cui fondare il proprio mestiere. Forse la condizione dei giovani teatranti italiani è questa diffusa, a volte disperante, solitudine sulla scena, dentro la drammaturgia, nell’assenza di regia? è la difficoltà ad individuare, a pensare una via d’uscita? Come combatterla, allora, come allontanarcisi al più presto? Con quale passione, con quale intelligenza, oltre alla fatica del mestiere che si studia, si impara, si confronta? Mettendo in atto quali pratiche istituzionali? Ciò che impressiona è la necessità (non sempre primaria, invero) di rivolgersi al teatro per dire, per testimoniare, per interrogarsi.
Si sa che il teatro è capace di rappresentare la contemporaneità ogni qualvolta chi lo fa riesce a comunicarne il bisogno e allorquando un pubblico ne avverte la necessità. Oggi questo rapporto tra bisogno di teatro e sentire contemporaneo perde sempre più ragioni, non riesce più a costruire senso. Si può perciò tentare di raccogliere le nuove energie artistiche ed organizzative in nuovi (rinnovati) soggetti teatrali, non più isolati. Ma quali sono davvero le difficoltà del passaggio dall’invenzione artistica alla professionalizzazione? Oltre allo sviluppo dei contenuti artistici, bisogna acquisire gli strumenti tecnici per la gestione della compagnia, impostare su basi solide il rapporto col sistema teatrale e pianificare l’ingresso nel mercato. Proprio per gli artisti più promettenti, e segnalati attraverso i premi, i riconoscimenti, l’attenzione da parte degli ambienti della critica e degli operatori, si profilano rischi di vario tipo, legati - da un lato - all’impreparazione economico-organizzativa dei soggetti più giovani e - dall’altro - al cinismo di un mercato teatrale che tende a sfruttare le nuove risorse artistiche non offrendo loro le dovute tutele. Ci sarebbe bisogno di un "Incubatore d’imprese" che dia alle giovani formazioni strumenti ed occasioni sia in senso promozionale, sia nel senso della formazione di impresa teatrale.Nel panorama attuale di restaurazione culturale, laddove sembra che anche il teatro e tutta l’arte debbano rispondere sempre più esasperatamente a logiche d’impresa, un terreno ai margini, frutto di realtà ed attività minori, fuori dai canali consolidati (organizzativi, legislativi, di finanziamento) può essere un rifugio per i giovani, la risposta per chi ci crede ancora.
Nella migliore delle ipotesi il sistema italiano guarda ai giovani per cercare un nuovo "talento" teatrale da consacrare in cartelloni svariati ed indefiniti, in programmazioni indistinte, come a volerlo trasformare subito in un marchio sicuro da consumare in fretta (sia dal punto di vista produttivo che di visibilità), prima che qualcuno ne scopra un altro ed il mercato lo santifichi. Per ogni "talento" scoperto (effimero o duraturo che sia), quali e quanti spazi si aprono, che possibilità si danno alle centinaia di giovani professionisti da cui dipende la capacità del sistema di fare qualità? Che senso ha una politica teatrale che si basa unicamente sui "talenti" (che trovano facilmente collocazione sul mercato) e trascura la pratica delle professionalità (che diversificano ed ampliano il mercato)? Prima che la crisi dei palcoscenici, è l’intero sistema che sta dichiarando la propria obsolescenza, che sta cercando di sopravvivere a se stesso negli uomini, nei modelli, nelle pratiche. Manca quello che si potrebbe chiamare un "movimento" teatrale, cioè un ampio, articolato sistema fatto di talenti e di tante professionalità che producono, organizzano teatro. Non è che non ci siano, più tristemente il sistema li ignora e si arrocca sull’istituzionalizzato, sul consolidato. Si crede davvero che il cambiamento da più parti invocato sarà capace di creare tanti nuovi spazi (architettonici, occupazionali e di finanziamento) quanti sono oggi gli esclusi, i non-ammessi, i solitari? E allora perché questa impermeabilità di istituzioni e teatri rispetto ai giovani, ai quali al massimo si offrono aree minori, minispazi che non hanno sbocchi? Fuori da ogni ipocrisia, si sente il bisogno di un "patto fra le generazioni" del teatro italiano, che lungi dall’essere un patto di non belligeranza o un armistizio per lo status quo, si fondi sul riconoscimento e sulla agibilità dei valori e delle ambizioni dell’altra (generazione).
"In the performing arts, crisis is apparently a way of life", William Baumol e William Bowen, 1966.
In questi ultimi anni più che la crisi dei finanziamenti spaventa assai di più la assenza di risposte alle questioni degli spazi, della omologazione artistica ed organizzativa al basso, della degenerazione del sistema di relazioni fra le istituzioni e gli artisti. C’è bisogno in Italia di abbassare sempre più e rapidamente la soglia di definizione di "giovane" (attori, registi, ecc...) e riallinearla alla soglia europea: per far questo è necessario che il sistema si apra presto ai trentenni, magari iniziando a ridurre le attività affidate ai già pensionati.
Si offrano, per esempio, residenze ai nuovi gruppi e si destini una quota (il tre per cento?) del budget di produzione dei teatri stabili di innovazione ai giovani artisti, ai progetti di giovani registi. Con la forza dei fatti sarà forse possibile indurre gli stabili pubblici a fare altrettanto ed i circuiti regionali di distribuzione a sostenere la domanda verso il nuovo teatro italiano. Si offrano all’interno dei Festival, grandi e piccoli, spazi liberi ai nuovi rischi artistici dei giovani, perché questi possano verificare se i propri sogni, le proprie ambizioni e le proprie presunzioni hanno un qualche fondamento e se vale la pena continuare a bussare alla porta dei più grandi. Le strutture più forti, quelle che hanno consolidato un rapporto con il pubblico e con il territorio, quelle più accreditate a livello istituzionale nazionale e regionale, insieme ai giovani artisti, possono rompere il circolo vizioso politica/teatro. Chi fa teatro ha dimostrato di saper tutelare anche gli interessi generali di una comunità, attraverso l’innalzamento della qualità della vita di interi territori, assai di più e meglio di quanto abbia fatto la politica. Nessuno nega alla politica il potere di indirizzo e la definizione degli obiettivi, ma oggi essa deve arretrare, andare lontano, il più lontano possibile dalla gestione. Ci sarà bisogno di spettacoli che incuriosiscano il pubblico, ma non basteranno se nessuno sarà disposto a rinunciare alle rendite di posizioni che stanno appiattendo anche il panorama dell’innovazione e della ricerca.
Se stare "fuori della politica" minaccia come conseguenza il star "fuori dai finanziamenti", la scommessa sarà più grande ed il rischio più alto, ma le forze per riuscirci ci sono, si cercano le volontà! Al nostro teatro, di tradizione e di innovazione, contemporaneo e celebrativo, scritto, diretto e recitato da giovani artisti e da maturi professionisti, davanti a platee piccole e grandi, in teatri famosi e sconosciuti, manca il pensiero. Più ci si scandalizza per i ripetuti conflitti d’interesse, più crescono le lamentele e l’insofferenza istituzionale e più si allunga la vacanza del pensiero del teatro contemporaneo in Italia. Manca un pensiero per capire come mai non ci sia istituzione teatrale, teatro pubblico o privato, in cui non succeda qualcosa di inutile, di mediocre, di bassamente qualitativo. Invece di produrre pensiero, si producono documenti di protesta e di denuncia, indignate prese di posizione che di quel pensiero non sono neppure le scorciatoie. Il pensiero di cui c’è bisogno è fatica solitaria prima, poi scambio in cui dare e rinunciare a qualcosa per un progetto comune.
Sono tante le istituzioni, più o meno pubbliche, più o meno private, che negli ultimi anni, anche grazie ad una politica più illuminata dell’attuale, si sono consolidate ed hanno raggiunto vertici di visibilità e di finanziamento nel loro comparto. Ma sono altrettante quelle che negli anni hanno sempre più confuso la propria sopravvivenza con quella che era la propria missione originaria. E pur continuando a fare innovazione, a dichiarare la necessità di cambiamento, le loro azioni teatrali e politiche hanno cominciato a valere più di quelle degli altri, e si è generato un processo di isolamento a difesa e tutela di una identità artistica avvertita sempre meno come necessaria. Le contingenze finanziarie (ma anche le approssimazioni gestionali) hanno favorito una gestione economica dal corto respiro e dallo sguardo troppo ravvicinato. Si è perso sempre più il senso dell’agire in un contesto di forti e solide aggregazioni e si è diventati tanto gelosi dei propri spazi che la relazione con gli altri o è stata totalizzante o si è limitata al rapporto economico-finanziario. E gli spettacoli, le pratiche teatrali rischiano sempre più le logiche di un mercato che offre spazi marginali, asfittici, all’innovazione, al rischio, alla ricerca.
Non c’è una ricetta per uscire dalle acque stagnanti e ritrovare slancio, si può solo sperare che attraverso continue provocazioni si convincano le direzioni artistiche ed organizzative ad essere meno conservatrici.
"La stessa porzione assoluta di un bene produce più benessere in una situazione che in un’altra" (Carlo Augusto Viano, Etica pubblica, Laterza, 2002).
Una politica per il nuovo teatro ha necessità di confrontarsi con professionalità artistiche ed organizzative sempre in movimento, all’interno (e non fuori, ai margini di rassegne e premi) delle istituzioni teatrali consolidate, dei teatri stabili, delle compagnie affermate. Si potrebbe aggiungere che compito della politica è di non imputare all’arte il suo deficit economico, cercando solo e soltanto ritorni positivi immediati, bensì di impedire la creazione di un "deficit artistico", cioè che si ragioni sempre più in termini di finanziamenti convenienti e opportunità politiche a scapito ed indipendentemente dalla qualità delle attività prodotte. Sarebbe interessante, e non privo di sorprese, leggere molti bilanci di teatri grandi e piccoli secondo il criterio del "deficit artistico" (per esempio il deficit dichiarato dal Piccolo Teatro di Milano può essere riferito solo al disavanzo di bilancio?). Forse dagli incontri fra operatori e politici inizierà ad emergere una nuova consapevolezza sul ruolo e sulla collocazione del teatro; forse l’Eti avvierà prima o poi il superamento della fase burocratica del sostegno al teatro; forse Stato e Regioni definiranno le rispettive competenze in materia di spettacolo e si ritornerà a regime coi finanziamenti ; forse i teatri, le compagnie ed i festival usciranno dall’enfasi aziendalistica e potranno riconsiderare la propria missione originale e riarticolare la propria attività. Forse.
Cristina Pezzoli: "non è il nuovo teatro che non va bene per il mercato, ma è questo tipo di mercato che non va bene per il nuovo teatro".
Ma intanto che cambiano le norme, gli uomini, tanto possono fare gli artisti, i tecnici, gli organizzatori, costruendo da subito una rete di relazioni fiduciarie, formali ed informali, che stimolino la reciprocità, la cooperazione, l’indispensabile coesione di un nuovo corpo teatrale.